7 aprile 2024 - II Domenica di Pasqua

Omelie festive

Giovanni 20,19-31


1. Pasqua per cinquanta giorni

Le domeniche che seguono il Natale sono dette “dopo” Natale,
quelle che seguono la Pasqua, per una cinquantina di giorni, sono dette “di” Pasqua.
Sì, perché con questo termine che significa “passaggio”, la liturgia cristiana comprende
non solo la morte e resurrezione, ma anche l’Ascensione del Signore e la Pentecoste.
E’ il tempo in cui il Risorto appare agli apostoli ed anche a cinquecento discepoli in una volta sola.
Sempre il primo giorno dopo il sabato, l’ottavo giorno.
Nel gioco dei numeri questo indica che la ciclicità del ritmo settenario dell’esistenza umana
è infranto, i cancelli dell’eternità sono aperti per coloro che accolgono il Cristo Risorto.

2. L'effusione dello Spirito dà nuova vita

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà,
di come si erano comportati nella notte del tradimento. E manca l'aria.
Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabili: e stette in mezzo a loro.
Se trova chiuso, lui non se ne va;
se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì.
Shalom, ha detto, parola biblica che porta la forza dei retti di cuore dentro le persecuzioni,
la serenità dei giusti nelle ingiustizie,
una vita appassionata su quelle che sono spente.
Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo. E lì scende il vento delle origini,
il vento sottile dell'Oreb su Elia profeta,
quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando!

3. Dall'incredulità all'estasi

“Se non vedo e non tocco, non crederò”. Povero, Tommaso, diventato addirittura proverbiale!
Vuole delle garanzie, e a ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne sarà sconvolta.
Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca.
Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto:
amore legato a ferite incancellabili, luminose,
da cui non sgorga più sangue, ma luce: ferite trasfigurate.
Attraverso le nostre ferite, che sono i colpi duri o insensati della vita,
ci scopriamo capaci di affiancare altri quando attraversano le nostre stesse tempeste.
La debolezza allora, come quella dei discepoli, non è un ostacolo,
ma diventa una opportunità per meglio seguire il Signore.
Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare,
ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte.
E la sua pace scende ancora su noi peccatori sconfitti, sulle nostre chiusure e sulle nostre paure.
Tommaso passa dall'incredulità all'estasi.
Se alla fine abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è così importante.
“Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ripete quel piccolo "mio" che cambia tutto,
che non indica possesso geloso, ma rivela ciò che mi ha rubato il cuore
e mi fa vivere, la parte migliore di me.
"Mio", come lo è il cuore. E, senza, non sarei. "Mio", come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente è mia.
E Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora.
La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante.
Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato:
col rischio di essere felici portando le nostre piaghe di luce.
Rischio dolcissimo: “Ecco io carezzo la vita, perché profuma di Te!” (Rumi). 
 

Esci Home